Idea di se e idea attesa di se negli altri
I contenuti della nostra mente, sono la rappresentazione delle sedimentazioni via via accumulate attraverso le esperienze, tanto che l’uomo, avverte in se la fonte della propria creatività, e vi si identifica, credendo di esserne lui stesso fonte.
I suoi pensieri creano e possono concepire idee il cui contenuto, diventa realtà.
Le idee, indotte dalla creatività, divengono copioni da realizzare.
La realizzazione di questi copioni si esplica, con l’integrazione delle rappresentazioni, che vengono fatte convergere, verso l’idea, il desiderato (tante piccole azioni verso l’uguaglianza dell’oggetto).
Spesso per essere riconosciuto dal prossimo, ognuno indossa un abito, assumendo atteggiamenti stereotipici che tentano e tendono ad indicare ciò che egli vuole rappresentare.
Il parrucchiere, il pittore, il calzolaio, lo scienziato, l’impiegato,
l'avvocato, l’imprenditore, etc... scorrendo silenziosamente questi ideogrammi,
ci si immerge nelle scene corrispondenti, provando emozioni quali "piacere" o "disagio", a seconda della scala di valori che la cultura (dimensione riconosciuta comune) schematizza.
Questo significa che ogni volta che
si entra a contatto con altri esseri umani, si misura su se stessi tale rapporto.
Ad ogni nuovo incontro, per esempio con un malato, un povero un ricco
etc., come prima azione ci si vesto di lui (ci si immedesima), entrando in una realtà che diventa virtualmente
propria.
Nel momento in cui
si da credito a tali illusioni, si creano delle situazioni che fanno
sprofondare nell’angoscia, facendo vivere un’autentico tormento interiore.
Da questo discende la sensazione di "paura" nell’incontrare un "disabile" oppure la sensazione di "piacere", nell’incontrare una "persona di successo": vivo virtualmente quelle situazioni, ma concretamente, ciò che resta, è solo il sapore "dell’essersi sentito come se".
Sembra che ognuno cerchi di correre "ai ripari" vestendosi di uno degli abiti messi a disposizione dalla "cultura" in cui vive, indicando a sè ed agli altri "un’identità".
Dato che questo vale per tutti, nel momento in cui mi vesto da
dottore, mi attendo che colui che mi sta di fronte, mi riconosca come tale, con gli stereotipi e le standardizzazioni che un simile involucro contiene. La figura del non vedente, così come le altre, viene quindi racchiusa in un clichè comportamentale standard, tanto che colui che perde la vista già sa in qualche modo in che dimensione collocarsi, mentre chi vi si trova di fronte è consapevole dei comportamenti e delle azioni che ci si aspettano da lui: ognuno impersona un ruolo.
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